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A distanza di
più di 1300
anni, San
Venerio ritorna
alla sua isola
verdeggiante
sentinella —
oggi che il
verde si va
rarefacendo —
all’entrata del
golfo. Vi
ritorna, in
forza di una
consuetudine che
data solo da
pochi anni, ma
che sembra ormai
entrata ed
accolta con
simpatia nella
nostra terra,
anche perché la
suggestiva
cerimonia che
l’accompagna, è
sempre stata
allietata e resa
fulgida dal bel
tempo. Una buona
occasione per
accedere (senza
autorizzazione)
all’isoletta
profumata di
resine di erbe
buone, grazie
alla pineta
marittima ancora
intatta; una
sosta di
spiritualità,
fra sacre mura
riattate e rese
accessibili, a
chiusura
dell’evasione
estiva che tutti
hanno chiesto,
più o meno
largamente al
mare ed alle
varie risorse e
bellezze del
golfo.
Nella storia della terra lunigianese, il
Tino ha sempre
avuto funzione
di faro
luminoso,
intendiamo nel
senso etico e
spirituale anche
all’infuori,
cioè di quella
conferitagli
dagli uomini per
la sicurezza dei
naviganti, che
la leggenda fa
addirittura
risalire al
monaco cenobita
Venerio. Ma
questi fu anche
luce spirituale
che attirò nel
suo raggio
miseri e
potenti, fra gli
altri un
imperatore
bizantino, Foca,
che si dice lo
visitasse nel
suo eremitaggio
fra il 602 e il
609. Spentasi la
luce di Venerio
(il 13 settembre
del 630)
l’intera regione
marittima — ma
anche le due
riviere, le
grandi isole e
l’intera costa
tirrenica —
piombano, di li
a poco, in
quell’oscurità
che gli storici
altomedioevali
chiamano i «
secoli bui ».
La talassocrazia degli arabi s’era estesa
all’intero
Mediterraneo
occidentale; le
due riviere
soggette per più
di due secoli
alla « oppressio
saracenorum »,
erano state
devastate, gli
approcci
marittimi
spopolati. La
marmorea Luni,
Genova stessa
aveva avuto
ferite quasi
mortali e la
prima era stata
cancellata del
tutto dal novero
dei centri
romani proprio
intorno all’anno
Mille, quando
l’oppressione
araba stava per
essere
debellata.
Ed ecco accendersi sul Tino una nuova luce.
Nel 1050 circa i
signori di Vezzano, padroni
di Porto Venere
costruiscono un
convento, con
annessa «
ecclesia » sulla
pittorica balza
nella quale
sorgeva la
cappella,
rimasta vuota
dei resti di
Venerio,
traslati a
Reggio Emilia
nell’anno 808.
Il monastero
diviene in pochi
anni il più
ricco e famoso
della regione
ciò che induce
la santa sede a
mantenerlo
lungamente sotto
la sua diretta
giurisdizione.
E’ affidato al
monaci
benedettini, ai
quali succedono
gli olivetani
nel 1432, con
diritto alle
coltivazioni
delle terre
della Palmaria,
da essi portate
a gran
rendimento, come
resulta dai
documenti
dell’epoca. La
luce spirituale
emanante
dall’isolotto è
tale che le
grandi famiglie
della Lunigiana
lo designano a
sede dei loro
resti mortali.
E’ difficile
rendersi conto,
a tanta distanza
di tempo delle
ragioni prime di
un così grande
prestigio...
Comunque, il Tino resse finché la potenza
navale e
l’influenza
politica della
repubblica
genovese furono
tali da
garantire la
sicurezza nei
suoi stessi mari
di casa.
Verosimilmente
ciò non fu più
quando (nel
1470) la «
famiglia del
Tino » fu
costretta a
ritirarsi nel
monastero delle
Grazie,
lasciando al
Tino solo alcuni
fratelli
guardiani. Sul
mare si
succedono nuovi
nemici di
Genova:
veneziani,
turchi,
aragonesi,
eccetera lo
stesso golfo è
sotto continua
minaccia e Porto
Venere va
gradualmente
perdendo la
funzione di
scudo così ben
esercitata nel
Medio Evo.
Comincia l’epoca
delle grandi
guerre. Spenta
nuovamente la
luce del Tino,
del famoso
convento resta
un ammasso di
macerie.
Cosi lo videro i coetanei Giovanni
Cappellini e
Agostino Fossati
nelle loro
escursioni
giovanili
intorno al 1850
e di
quest’ultimo è
divenuta
preziosa una
tela che ritrae
le rovine del
monastero sullo
sfondo
dell’ancora
intatto
paesaggio della
Palmaria. Così
lo aveva visto
ed eternato in
pochi incisivi
versi il poeta
tedesco Augusto
von Piaten nel
1828 nella sua
lirica « Invito
all’isola
Palmaria ».
La seconda guerra mondiale accumula sulle
due isole più
vistose macerie
delle distrutte
fortificazioni,
e nell’euforia
che succede ai
lunghi anni del
tormento
comincia una
nuova
devastazione:
l’incendio dei
boschi che in
breve cambia i
connotati alla
Palmaria. Pochi
idealisti osano
andare contro
corrente e
confortati
dall’aiuto della
marina militare
e della
sovrintendenza
ai monumenti
gettano le basi
di una
istituzione
intesa a
preservare le
bellezze
pittoriche e a
rivalorizzare, i
resti
archeologici
nell’isolotto
del Santo di
Porto Venere. Il
resto è storia
nota. A nostro
parere
l’esperimento -
se tale possiamo
chiamarlo — è
perfettamente
riuscito e per
dover d’equità
segnaliamo con
l’opera della «
Pro Insula Tyro
» quella
fiancheggiatrice
del comune di
Porto Venere, nonchè della
locale
parrocchia, che
fin dall’inizio
si è sempre
prodigata
(specie nella
persona
dell’attuale
arciprete don
Beretta) per la
buona riuscita
di una cerimonia
che la riguarda
molto da vicina.
Il Tino è salvo; ma coloro (e non sono
pochi) che
guardano con
interesse — non
scevro di
giustificata
apprensione — al
futuro di Porto
Venere, vedono
ancora insoluto
e grave di
incognite il
problema della
Palmaria, che
del vetusto e
già industre
paese fu in ogni
tempo il polmone
che le dava il
più sicuro
respiro
economico.
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